Il riso uccide la paura

Sin dall’inizio del film ero convinto che ci sarebbe stata una risata al buio. Arriva, sul finale di una pellicola che narra di una trasformazione. La storia di Joker, che non sarebbe mai stata raccontata così se prima non ci fosse stato Nolan, è riassumibile in quel momento in cui tutto sembra inevitabilmente precipitare. Proprio quel misto di impotenza, rassegnazione e spleen che sono talmente profondi da rimbalzarci all’opposto, a una esaltazione irrazionale. Da qui le nostre risate isteriche.

Joaquin Phoenix è gigantesco, forse troppo. Adombra tutto e tutti, d’altronde è la sua storia, lui (cioè Joker, ma è quasi impossibile distinguerli) la scrive e la interpreta. Lo fa sin da quella risata mista a pianto indecifrabile, che atterrisce non perché fa paura, ma perché è perturbante: respinge e attrae allo stesso momento. L’acerrimo nemico di Batman è un disperato, costantemente vessato, in cerca d’amore e di comprensione. Non solo, vive in un mondo retto dalle ombre della verità: scopre in sequenza – in una seconda parte del film più dinamica della prima – di essersi immaginato una storia d’amore e di aver commesso l’errore fatale di aver creduto ciecamente a sua madre.

La domanda che mi facevo durante l’alternarsi delle scene era: quanto regge? Cioè, per chi adora i film di Batman (ovviamente non tutti), il rischio spoiler è impossibile. Anzi, Todd Phillips si dimostra magistrale nei dettagli citazionisti: dalla maschera dell’eroe che “compare” nello specchio usato da Joker all’inizio del film per truccarsi, all’omaggio a Tim Burton nella scena dell’uccisione dei coniugi Wayne. Ebbene, Joker regge fino a quella epocale discesa fisica e metaforica negli inferi, quando ormai ha bruciato tutto, allontanato il rimorso, sputato via qualsiasi briciolo di compassione verso quell’umanità che lo ha condannato sin dalla nascita allo stato di mostro.

La scena è epocale, interrotta quasi comicamente dall’inseguimento dei due agenti. Ecco, di qui in poi si aprono due strade. La prima, quella dei più suggestionabili, rappresenta lo stupore per la cattiveria (peraltro cinicamente sbattuta in faccia allo spettatore nella sequenza precedente, in cui Joker uccide violentemente un suo ex collega e prova sincera gratitudine verso un altro, graziato). La seconda, quella dei più critici, meno sorprendente: quel Joker a quel punto della (sua) storia non può che uccidere con la disinvoltura di chi si fuma una sigaretta e mettere a ferro e fuoco la città.

A parte questa personale visione, trovo Joker un film potente scritto, girato e montato per mettere in crisi lo spettatore. Attenzione, non me ne frega nulla delle critiche sulle possibili derive diseducative della pellicola; anche perché non vedo cosa ci sia di educativo in Baudelaire, in Boccaccio o nello stesso Shakespeare. Dell’arte si gode nel momento stesso in cui la si fruisce, poi ognuno torna ai propri tormenti quotidiani. Ma ci sono opere che riescono a spingere questo godimento al limite. Joker è come un live dei Throbbing Gristle: sai che non ti piace, ma non distogli lo sguardo. 

In certi punti Phoenix è autolesionista come GG Allin, in altri tremendamente depresso come la musica dei Joy Division. Ma, rispetto a questi ultimi, c’è una totale differenza: Joker non sa cosa sia l’armonia e nemmeno l’eleganza. Le sue battute sono mediocri, il suo lavoro squallido rispetto alle aspettative e poi l’appartamento… Ecco dove vince il film. Quel personaggio ci inquieta, sappiamo di guardare un malato che non sa colmare lo scarto di verità che lo separa dalla realtà. Joker vince nel momento in cui, sul finale comico di un inseguimento cartoonesco, ci rendiamo conto che quello lì è solo un pagliaccio criminale. Niente più e niente meno, una persona condannata a vivere quel ruolo lì senza poter nemmeno sognare una redenzione impossibile da ottenere o realizzare. 

Chi ci vede qualcosa in più non è altro che un cittadino di Gotham che ha bisogno di un Batman per accarezzare le proprie paure e riconoscersi in un giustiziere mascherato. No, Joker è il buio, quello che deve nascondere la propria risata malsana e se l’oscurità mette ansia, non serve la penombra per addolcirla. Nella mia personale scala di innamoramento per i vari Joker Heath Ledger si mantiene saldamente in testa e uno dei motivi è piuttosto chiaro: il film non è il suo, ma lo monopolizza dalla prima scena fino a quel momento che si fa parabola dell’eterna lotta tra bene e male. Quando Jokerpotrebbe uccidere Batman ma non lo fa, perché non può, perché “Senza di me non sapresti più che fare. E io senza di te non mi divertirei più. Ecco perché non ci uccideremo mai”. Come ridimensionare l’eroismo in tre frasi. 

Per me Ledger batte Phoenix per un’ultima e significativa motivazione: il Joker de Il cavaliere oscuro sa anche provare paura, non è un mero “agente del caos”. E la sua risata, meno spettrale di quella di Joker risuona nel vuoto come esigenza esistenziale: per uccidere la paura.