Era pomeriggio, lo ricordo bene. Una giornata di fine inverno, di quelle che la primavera sembra essere davvero dietro l’angolo. Pisa esplodeva di profumi. C’era un mercatino in una piazza colma fino all’orlo di libri. Io e Selene frequentavamo un master lì; su e giù dalla Calabria alla Toscana, ore di viaggio che pian piano cominciavano a prendersi un po’ di meritata luce. Così, imbevuti di traduzioni postcoloniali, cominciamo a spulciare quei volumi. Era inevitabile, parte della nostra amicizia si fonda su passioni comuni e una di queste è la cultura africana. Ed eccoci a spartirci un malloppo di libri: copertine spoglie di un bianco sbiadito che lasciavano presagire viaggi emotivi in epoche non troppo lontane, ma nemmeno così vicine.
Quando scoprii che la piccola grande casa editrice milanese Epoché aveva chiuso i battenti mi sentii fuori tempo, ma avevo semplicemente anticipato quella sensazione di perdita di aderenza col presente che mi provocò in seguito la lettura di Sony Labou Tansi ed Emmanuel Dongala. Per una felice serie di eventi, questi due libri sono tornati prepotentemente a colorare le mie giornate. Mi colpirono così tanto, quando li lessi per la prima volta, che finirono col dipingere un immaginario fattosi testi e musica che tra non molto verrà alla luce, finalmente. Ad ogni modo, i due autori sono molto diversi tra loro e con entrambi ho stretto un rapporto emotivo che in questo periodo così drammatico e statico rappresenta un rifugio da raggiungere lasciandosi alle spalle quarantene e dirette streaming.
Nemico del popolo è un racconto spigoloso, acre e doloroso. Tansi riesce a creare un protagonista che veste benissimo i panni del reietto, la cui caduta dal paradiso (o, forse, da un purgatorio che ha i colori dell’inferno) è quasi inevitabile. Il professore Dadou è stato tradito dal tempo; una lotta persa malamente che lo ha reso terribilmente disilluso. Tanto da abusare della parola schifo; l’unica lente attraverso la quale guardarsi attorno, la sola risposta a tutte le complicazioni quotidiane. Il libro si sviluppa in due parti uguali e diverse: in entrambe Dadou giunge alla conclusione che tutto è uno schifo, ma, se nella prima subisce persino un’ingiusta accusa, a metà avviene l’impensabile. Il protagonista, infatti, decide di arruolarsi persino nelle forze clandestine controrivoluzionarie. Così, le vicende del cittadino Dadou si trasformano in pennellate violente, bordate di feroce invettiva sociopolitica che esplodono in un quadro a tinte forti dell’Africa moderna e, in parte, contemporanea.
Più poetico e ancestrale, L’uomo di vento è una storia circolare che abbraccia il periodo pre e post coloniale seguendo le orme di Mankunku. Lo impariamo a conoscere neonato e con lui veniamo iniziati ai rituali della sua tribù, siamo contesi tra innovazione e tradizione, scienza e credenze popolari. Poi, ad un certo punto, irrompe l’occidente con la sua violenza, i suoi calendari e la sua burocrazia, comprensiva di nuove identità e uffici di collocamento. Insieme a Mankunku cominciamo a rimpiangere quella dimensione sospesa e rurale della sua infanzia, avvertendo l’esigenza di un ritorno prima emotivo e poi fisico. Nel tentativo di “ritrovare, come all’alba del mondo, lo sfolgorare primo del fuoco delle origini”, ci perdiamo nell’eco di onde lontane, simili al sax di John Coltrane.
Due testimonianze della complessità del Novecento africano, due modi diversi di affrontare il racconto: Tansi ti sputa in faccia, Dongala ti ipnotizza con le parole. Entrambi esorcizzano la frenesia che ci sta attorno ed è per questo che, mai come in una primavera mutilata come quella che stiamo vivendo, le loro parole sono un conforto e una fuga dal nostro banale intricato quotidiano.