Verranno a chiederti dell’indie sleaze

Su TikTok da mesi sta imperversando una app che trasforma lo smartphone in un iPod, un tempismo perfetto per colmare il vuoto lasciato dallo stop alla produzione del lettore musicale dichiarato da Apple. Nemmeno il tempo di dare il benvenuto al 2023 che il web ci mette già di fronte a decennali e ventennali di album importanti o, se non proprio storici, perfetti per quell’effetto nostalgia che ci sovrasta. 

Ma fermiamoci al 2003, l’anno di Room on Fire degli Strokes, di Elephant dei White Stripes e, ancora, di Fever to Telldegli Yeah Yeah Yeahs, Sad Songs for Dirty Lovers dei National, Echoes dei Rapture, e degli esordi di Arcade Fire e Killers. Il lancio di MySpace, l’ultimo volo del Concorde; il periodo raccontato da Meet Me in the Bathroom, il libro di Lizzy Goodman sulla scena rock newyorkese di inizio secolo diventato nel 2022 anche un documentario.

Quasi venti anni dopo l’uscita dell’Ep The Modern Age, su Instagram viene pubblicato il primo post dell’account Indiesleaze (traducibile con “dissolutezza indie”), nato per «documentare la decadenza degli aught (il decennio 2000-2009) e la scena dei party indie sleaze che si è spenta nel 2012». Il termine indie sleaze è stato coniato alla fine del 2021 dalla tiktoker Mandy Lee, che a Vogue ha spiegato: «Siamo stati in lockdown per due anni e la gente ha una gran voglia di comunità e creatività […] Mi sembra che quindici anni fa, con la sottocultura indie sleaze, la comunità, l’arte e la musica fossero così potenti da unire le persone. Penso che questi elementi specifici, più che la moda, diventeranno prevalenti, così come lo stile fotografico».

Ma agli inizi del nuovo millennio, dopo il grunge, il britpop, le boyband, anfratti New Age e il Millennium Bug sembrava che questo Duemila tanto atteso non fosse poi così esaltante. D’altronde, l’aveva detto Francis Fukuyama: con la caduta del muro di Berlino, la storia era finita. Lo avevano messo in musica i Radiohead in Kid A e Amnesiac, tetri paesaggi dove anime schiacciate dal capitalismo intravedevano un’era glaciale in arrivo. Serviva una scossa per dare ai millennial – ovvero, ai nati tra il 1981 e il 1996 – una colonna sonora con cui tuffarsi nel nuovo secolo.

Le vibrazioni del sisma si fanno sentire proprio all’inizio del secolo e sono provocate dagli amplificatori di ventenni vestiti in maniera impeccabile che catturano il riverbero indie degli anni Settanta e Ottanta, e lo fanno correre lungo le connessioni a 56k. Quelle stesse connessioni che, ben presto, diventano autostrade su cui il passaparola degli appassionati di musica è accompagnato da veri e propri file audio piratati da qualche server.

Le oscillazioni si propagano in un ambiente discografico completamente diverso da quello in cui nascevano etichette come Rough Trade, Mute, Sub Pop e 4Ad, dove si formavano band come Smiths, Depeche Mode, Sleater-Kinney e Pixies. Le major si erano prese i Sonic Youth e i Nirvana, pensavano che Internet sarebbe stata una moda passeggera e, così, toccava alle storiche label e a nuove realtà indipendenti fornire uno spazio in cui band emergenti potevano esprimersi in libertà e firmare contratti di distribuzione con le grandi case discografiche, così da avere un’eco più robusta. 

The Strokes’ Is This It at 20: Nudes, booze and 9/11 – BBC News

Nel frattempo, lo spirito delle zine, le pubblicazioni do it yourself che dagli anni Settanta avevano reso il (para)giornalismo musicale più capillare, riviveva nei blog, pronti a documentare nuove leve destinate a diventare fenomeni nascenti. In questo scenario, il blogger Scott Lapatine va a un concerto newyorchese degli Arcade Fire e, con la sua fotocamera economica, fa qualche scatto per allestire al meglio il report da pubblicare il giorno dopo su Stereogum, il sito da lui fondato. L’indomani, tra le mail c’è anche quella della storica rivista Nme che gli chiede di poter usare le sue foto per un articolo sulla band.

Lo scintillio da tabloid degli anni Novanta è quasi un ricordo sbiadito, c’è giusto qualche buon vecchio gossip chiacchierato, come le frequentazioni tra la modella Kate Moss con il cantante dei Libertines, Pete Doherty, e l’attrice Drew Barrymore con il batterista degli Strokes, Fabrizio Moretti. Il Duemila si era portato dal decennio precedente il veicolo principale dei guadagni dell’industria musicale: il Cd, che costituisce nel 2001 il 93,9% del mercato statunitense. Ci vorrà il 2004 per vedere comparire nelle statistiche dell’Associazione dei discografici americani (Riaa) il download legale di album e singoli, rispettivamente 0,4% e 1,1%. Scaricare legalmente brani da internet toccherà il picco nel 2012, rappresentando il 23,4% dei ricavi, prima dell’egemonia dello streaming.

All’alba del terzo millennio, mentre si attenua l’orgoglio british con cui Oasis, Spice Girls, cinema e moda del Regno Unito imperavano nel decennio in cui Diana Spencer moriva in un incidente stradale e scoppiava lo scandalo Lewinsky, i party e i concerti sono vissuti come eventi avvolti in un’aurea magica, perché non condivisibili in tempo reale. Niente storie, dirette e selfie: i locali si riempiono di fotografi pronti a pubblicare il giorno dopo i propri scatti in rete, scatenando una corsa tra navigatori a cercare la testimonianza della loro presenza. 

In questa terra di mezzo, in bilico tra retaggi novecenteschi e avvisaglie futuribili, giovani affascinati dalle possibilità della rete, ma pur sempre minacciati dalla noia post-millenarista, imbracciano gli strumenti, si gettano in sala prove o nella propria camera da letto, e scrivono musica. L’indie degli anni ’00 fotografa l’istante esatto in cui cala il sipario su di un’era e un’altra è pronta a prendersi le luci della ribalta. Nulla sarà più come prima: sia nell’esperienza degli appassionati di musica, sia per la collettività. Guerre e recessioni, lo streaming e i social network entreranno nel nostro quotidiano.

A rendere i confini ancora più labili è l’assenza di una forte controcultura e la globalizzazione, che ha permesso al mainstream di assimilare le sottoculture. Zygmunt Bauman ne Il disagio della postmodernità parla di una cultura che è diventata una cooperativa di consumatori, questa «cancella o priva di significato la serie di opposizioni che formano una visione “costruttrice di ordine” della cultura». I dati pubblicati nel 2019 dal centro studi statunitense Pew Research Center raccontano di una generazione, quella dei millennial, generalmente più istruita della precedente, più lenta a lasciare il nido familiare e meno avvezza al matrimonio; chi sceglie di sposarsi lo fa comunque più tardi rispetto ai genitori.

Insomma, la distinzione tra giovinezza e maturità si assottiglia: nuove condizioni strutturali nelle dinamiche familiari, un mondo del lavoro in evoluzione e la stabilizzazione dello stato di precarietà generano un processo che, come l’Australian Institute of Family Studies nota nel 2004, «danno forma a una “nuova età adulta” in cui le transizioni sono incrementali, irregolari e imprevedibili». Questo significa che la cultura giovanile di inizio secolo allarga il suo bacino di appartenenza; l’entusiasmo di chi ha vissuto la cultura rave o quella punk non si spegne con la fine degli studi, ma si allunga fino alla mezza età. Lo youthquake – espressione creata dalla redattrice di Vogue Diana Vreeland negli anni Sessanta che raccontava come i giovani britannici stessero influenzando moda e musica – è roba del secolo scorso. Quando verrà scelto nel 2017 dall’Oxford Dictionary non avrà un connotato culturale, ma sarà il termine usato per descrivere un rinnovato impegno politico giovanile in occasione delle elezioni generali del Regno Unito di quell’anno.

9/11: The Steel of American Resolve | George W. Bush Library

Incapaci di pensare al futuro, infestati dalle glorie di un passato mai vissuto: i giovani degli anni ’00 che non si riconoscono nel nu metal, nel rap o nell’onda lunga delle varie boyband e girlband, non hanno molte scelte. La prima è quella di spulciare i vinili, Cd o audiocassette dei propri genitori, la seconda aspettare che lo schermo del computer sputi fuori qualcosa di più attuale, moderno. Quando nel gennaio del 2001 gli Strokes pubblicano per la storica etichetta indie Rough Trade il loro Ep è, come direbbero i Radiohead, tutto al posto giusto. S’intitola The Modern Age, come il periodo che negli studi storici va dalla metà del quindicesimo alla prima parte del diciannovesimo secolo. Alla faccia del futuro.

Quando, però, il futuro è arrivato, ci siamo resi conto che quella euforia d’inizio millennio era un qualcosa per cui provare quasi una certa invidia, mentre i meccanismi della retromania ci stavano già conquistando. «I need a new party to represent my needs» cantano gli Lcd Soundsystem in New Body Rhumba, la canzone scritta nel 2022 per il film White Noise di Noah Baumbach, e il verso sembra riverberare l’auspicio di Mandy Lee. Oltre alla nostalgia, c’è di più.

Fernando Rennis