Mala tempora currunt. Lo scorso 15 dicembre, durante il concerto dell’artista Asake alla storica Brixton Academy di Londra, la calca all’esterno del locale ha causato due morti e alcuni feriti, uno di questi è attualmente ricoverato in fin di vita. L’incidente ha avuto come stretta conseguenza la revoca temporanea della licenza alla famosa sala concerti e, pochi giorni fa, è stata lanciata una petizione per salvare la Brixton Academy, dopo che la Metropolitan Police ha rivelato di fare pressioni per chiudere definitivamente il locale. Il dibattito è l’ennesima conferma di un periodo nero per il sistema musicale britannico.
Un articolo della Independent Society of Musicians di qualche anno fa riprendeva lo studio pubblicato da Insure4Music che certificava come ogni mese tra il 2018 e il 2019 un piccolo locale di musica live britannico è stato costretto a chiudere. La tendenza è peggiorata con la pandemia e i rincari dovuti alla crisi energetica: il report annuale del 2022 redatto dal Music Venue Trust certifica che il numero medio di eventi settimanali per locale è sceso da 4,2 (2019) a 3,5 e che gli eventi hanno una capacità media del 40%, in calo rispetto al 51% del 2019.
Lo scorso 17 aprile si è tenuto un dibattito al Parlamento britannico sul tema “Music Industry” durante il quale è intervenuto il conservatore Stephen Parkinson, sottosegretario di Stato ai Beni culturali, che ha esordito così: «Signori, l’industria musicale è una risorsa nazionale fondamentale, che contribuisce per 4 miliardi di sterline alla nostra economia nel 2021, alimentando decine di migliaia di posti di lavoro e proiettando il nostro soft power sulla scena globale. Stiamo lavorando con l’industria per rispondere alle difficoltà che alcuni aspetti del settore continuano ad affrontare dopo la pandemia, tra cui l’aumento dei costi dell’energia, per il quale abbiamo sostenuto le imprese attraverso il programma di sgravi sulle bollette energetiche per 18 miliardi di sterline. Continueremo a lavorare a stretto contatto con il settore per comprendere le sfide emergenti e individuare i modi per sostenerlo».
Ma, soltanto qualche settimana prima, la Night Time Industries Association aveva bollato come “intenzionali” le numerose chiusure di discoteche e sale concerto ordinate dal governo. A rinforzare questo punto di vista c’è un dato piuttosto eloquente: se nel 2019 chiudeva un locale al mese, adesso ne chiude uno ogni tre giorni. Negli ultimi quattro anni hanno abbassato la serranda più di cinquecento attività legate alla musica dal vivo o al clubbing; attualmente sono ancora attive soltanto 870.
Come se non bastasse – cito un tweet: «Sembra che l’amata Bbc 6 Music stia precipitando nell’abisso. Ridurre due dei suoi migliori Dj (Marc Riley e Gid Coe) a uno solo è una vera schifezza». Il riferimento è al nuovo palinsesto del canale più indie della radio nazionale britannica, che sarà effettivo dall’estate. In molti lamentano il fatto che l’accorpamento delle due trasmissioni penalizzerà gli emergenti e la possibilità di conoscere nuovi artisti. Tra le critiche più efferate, quella di Stewart Lee sembra la più catastrofica: in un suo articolo d’opinione sul Guardian si legge che «la politica della terra bruciata dei Conservatori ha distrutto i nostri fiumi, il nostro Servizio sanitario nazionale, la nostra libertà di movimento. Ora anche 6 Music è a rischio».

Perché scagliarsi contro la politica? Be’, c’è un’ultima causa che non è stata fin qui menzionata. In una situazione in cui un musicista britannico su quattro salta un pasto (ce lo conferma Encore Musicians), oltre alla crisi dovuta alla guerra in Ucraina, e alla conseguente crisi energetica, e ai postumi della pandemia, la madre di tutti i guai è sempre lei: Brexit. Già nel 2021 Politico Eu prevedeva un «lento e costante declino» dell’industria musicale britannica in seguito alle conseguenze del risultato referendario del 2016.
In questo mio pezzo per Rolling Stone Italia parlavo di South London, un’isola felice di resistenza e forza creativa capace di modellare la musica britannica di questi ultimi anni. Come spesso accade, in tempi di crisi l’arte sa bilanciare un paesaggio desolante con opere profonde e vive. Era così anche negli anni ’70, quando Clash, Sex Pistols, Joy Division, Smiths e molti altri artisti pareggiavano i conti con il Thatcherismo, la paura per lo Squartatore dello Yorkshire, gli scioperi. Il Regno Unito era anche colpito dalla crisi energetica, dai contrasti con l’Unione europea, dal governo che chiudeva le sale concerto impaurito dai punk. Insomma, un “inverno dello scontento” sembra unire questo nostro presente a qualche decennio fa.
Fernando Rennis