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La classe operaia non va in tour


Un articolo del Guardian mette in evidenza le sfide finanziarie che molti artisti devono affrontare nonostante il loro successo. Il manager di Red Light Dan Potts spiega che la realtà è molto diversa da quanto possa sembrare dall’esterno. Se dopo la pandemia di Covid-19 i piccoli locali che lottano per non chiudere hanno ricevuto la giusta attenzione, David Martin, Ceo della Featured Artists Coalition (FAC), afferma che “suonare dal vivo sta diventando insostenibile dal punto di vista finanziario per molti artisti”.

Potts spiega: “Chi lavora nelle etichette discografiche pensa che le band guadagnino un sacco di soldi in tour, mentre le agenzie di booking pensano che guadagnino un sacco di soldi con i diritti d’autore: tutti pensano che gli artisti facciano soldi nel lato dell’industria musicale a cui non sono coinvolti”.

Molti artisti non sono in grado di coprire i costi crescenti con le entrate degli spettacoli e ci sono meno persone che assistono ai concerti di medio-piccole dimensioni. A causa dei costi elevati per suonare nel continente, dopo la Brexit le band britanniche ora fanno tour in Europa sono diminuite del 74%. È diventato un privilegio che si possono permettere solo un terzo dei gruppi.

Rimanendo nell’ambito del Regno Unito, durante il periodo del Cool Britannia e del britpop negli anni Novanta c’era un’atmosfera elettrizzante, ma nel frattempo cresceva anche la disuguaglianza. Dopo i decenni del dopoguerra che avevano dato opportunità, sul finire del secolo i ricchi che diventavano sempre più ricchi e potenti. La deregolamentazione dei mercati finanziari negli anni ’80, nota come Big Bang della City di Londra, ha giocato un ruolo significativo in questo spostamento economico, trasferendo la ricchezza dalle persone che lavoravano a coloro che possedevano capitali.

Nei primi anni Novanta, era ancora possibile vivere a Londra con pochi soldi e inserirsi nel settore creativo senza dover fare tirocini non retribuiti. Tuttavia, all’inizio del ventunesimo secolo, la situazione era cambiata. Fare musica cominciava a diventare più difficile per chi proveniva da contesti non privilegiati, con un aumento significativo nelle classifiche musicali di artisti provenienti da scuole private.

“Movimenti come il punk e l’hip hop”, scrive John Higgs in Love and Let Die, “hanno dato voce a parti della società che non erano altrimenti ascoltate, ma che avanzavano forti argomentazioni per il cambiamento. Questa spinta era assente nel lavoro dei musicisti più privilegiati, perché erano abbastanza soddisfatti dello status quo”.

Se computer e software hanno offerto un abbattimento dei costi da affrontare per registrare la propria musica e hanno facilitato operazioni fondamentali all’inizio di una carrira, come l’invio di un demo a una etichetta o a chi si barcamena per organizzare piccolo concerti, gli effetti del capitalismo sull’industria musicale sono rapidamente emersi, colpendo vari aspetti di questo mondo. Il privilegiamento artistico, la drammatica situazione dei piccoli locali in crisi e le difficoltà di andare in tour si aggiungono al discorso di James Blake sulle piattaforme di streaming, a quelli sulla sostenibilità del sistema musicale e sulla salute mentale degli stessi artisti: non sarebbe il momento di fare qualche riflessione più strutturata su quello che è diventata l’industria musicale?

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