Sono le otto di sera di domenica nove febbraio 1964 e sulla Cbs comincia una nuova puntata dell’Ed Sullivan Show. Dall’altra parte dello schermo, settantatré milioni di persone attendono di vedere quei “giovani di Liverpool che si chiamano i Beatles”, come li introduce il presentatore. Nello studio ci sono poco più di settecento posti, ma le richieste di biglietti erano state cinquantamila. Al Jfk di New York il quartetto era stato accolto da più di tremila giovani, un addetto, impressionato dalla scena, aveva detto al New York Times: “Non abbiamo mai visto niente del genere qui prima. Mai. Nemmeno per re e regine”. Siamo in piena beatlemania.
Il termine era stato coniato dalla stampa britannica in seguito al concerto dei Beatles al London Palladium, nell’ottobre dell’anno prima. L’evento, trasmesso in televisione a un pubblico di circa quindici milioni di persone, aveva mostrato agli inglesi cosa succedeva durante un’esibizione di George Harrison, John Lennon, Paul McCartney e Ringo Starr. A novembre il Daily Mirror lo scriveva a caratteri cubitali, “Beatlemania!”, precisando: “Sta succedendo ovunque”. Confortato da questa attenzione mediatica, il manager Brian Epstein aveva cominciato a lavorare al suo piano di conquista dell’America. Alla chiusura dell’affare, i Fab Four si erano assicurati ben tre apparizioni nel programma che otto anni prima, con la prima apparizione televisiva di Elvis, aveva fatto segnare il record di sessanta milioni di spettatori. Con molta probabilità, lo stesso Sullivan aveva sperimentato di persona l’isteria che accompagnava i Beatles quando, tornando a New York da Londra, il suo volo era stato ritardato a causa della folla accorsa a Heathrow per accogliere il quartetto, reduce da un tour in Svezia.
Nonostante un ingaggio tutt’altro che stellare, le esibizioni televisive all’Ed Sullivan Show giocano un ruolo fondamentale nel successo della band negli Stati Uniti. Appena due mesi dopo, infatti, le classifiche americane sono monopolizzate. Il quattro aprile i Beatles hanno dodici brani nella Billboard Hot 100: ai primi cinque posti ci sono Can’t Buy Me Love, Twist and Shout, She Loves You, I Want to Hold Your Hand e Please, Please Me. Per gli Stati Uniti, quei quattro ventenni di Liverpool sono una boccata d’aria. C’è la guerra fredda, ci sono le lotte per i diritti civili e, appena settantasette giorni prima del loro arrivo, il presidente John Fitzgerald Kennedy era stato assassinato a Dallas. Poco dopo essere atterrati, i Beatles sono bersagliati dalle domande dei giornalisti. Qualcuno accenna “Liverpool è…”, Starr lo interrompe: “La capitale dell’Irlanda!”. McCartney incalza, “comunque, metà delle vostre canzoni folk le abbiamo scritte a Liverpool!”. Le risate si mescolano agli “yeah yeah yeah” cantanti dalla folla.
La Guida Tv descrive con queste parole le continue grida degli spettatori allo Studio 50 di Brodway, urla che arrivano a coprire le voci dei Beatles. Harrison, Lennon, McCartney e Starr suonano tre brani – All My Loving, Till There Was You e She Loves You – prima della pubblicità e delle esibizioni di altri artisti. Sul finire della consueta ora di trasmissione, i Fab Four tornano sul palco per eseguire I Saw Her Standing There e I Want to Hold Your Hand. La conquista è appena cominciata.
Fernando Rennis
